Legge Europea sui Semiconduttori: a che punto siamo?

European chips act

Parlamento e Consiglio hanno trovato un primo accordo sul regolamento comunitario Chips Act.

Parola d’ordine: resilienza. Quasi un mantra, a cui l’Europa ha deciso di affidarsi per risollevarsi dal periodo di crisi pandemica di cui stiamo vivendo ancora oggi gli strascichi. Resilienza: la cornice ormai di ogni iniziativa messa in campo dall’UE, anche quella sull’ European Chips Act, che vede proprio nella resilienza, autonomia e sovranità tecnologica europea i suoi elementi cardini.

Lanciata il 15 settembre 2021 dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen durante lo Stato dell’Unione, il Chips Act sta diventando sempre più una realtà. Lo scorso 18 aprile, durante la fase cosiddetta dei Triloghi, il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno, infatti, raggiunto un primo accordo politico provvisorio su questa normativa, facendo procedere a ritmi serrati tutto il suo iter. Questo accordo provvisorio ora deve essere messo a punto, approvato e formalmente adottato da entrambe le istituzioni.

Ma perché questa iniziativa? Nonostante la presenza di aziende di prim’ordine, l’Europa detiene una quota globale complessiva del mercato della produzione di semiconduttori inferiore al 10% ed è fortemente dipendente da fornitori di paesi terzi. La guerra commerciale tra USA e Cina prima, e la pandemia da Covid19 dopo, hanno evidenziato ancora di più questa dipendenza, non solo europea ma globale, della catena del valore dei semiconduttori, che è nelle mani di un piccolo numero di attori (Cina, Taiwan e Corea del Sud). Una dipendenza che, vista l’importanza cruciale di questi elementi presenti ormai in moltissimi oggetti di uso comune, nessun paese si può più permettere. Europa compresa.

Se gli Stati Uniti si erano già attivati con il loro U.S. Chip Act, che ha messo sul tavolo ben 52 miliardi di dollari in aiuti per il comparto, seguiti anche dalla Cina, l’Europa non è stata certamente a guardare.

Gli obiettivi prefissati dall’European Chips Act sono molto ambiziosi:

  • Aumentare la capacità produttiva europea al 20% entro il 2030;
  • Rafforzare la leadership europea nel campo della ricerca e della tecnologia sui chip;
  • Sviluppare l’innovazione nella progettazione, fabbricazione e imballaggio di chip tecnologicamente avanzati ed efficienti dal punto di vista energetico;
  • Far fronte alla carenza di competenze, attraendo nuovi talenti e cercando di aumentare la forza lavoro qualificata;
  • Acquisire una profonda conoscenza delle catene di approvvigionamento globali dei semiconduttori per monitorarne il funzionamento, comprenderne le tendenze future e soprattutto anticiparne le perturbazioni per saper reagire prontamente e prevenire l’interruzione delle catene di approvvigionamento.

Per fare ciò sono stati stimati investimenti per un totale di 43 miliardi d’Euro, 11 miliardi dei quali previsti per l’iniziativa “Chip per l’Europa” indirizzati a finanziare la crescita della leadership tecnologica dell’Europa sviluppando capacità di ricerca, progettazione e fabbricazione soprattutto di chip di ultima generazione come quelli quantistici, ma soprattutto interventi in materia di istruzione, formazione, qualificazione e riqualificazione. E’ importante infatti investire sulla produzione ma se non ci sono i talenti da impiegare in queste fabbriche sicuramente non si va molto lontano. È come un cane che si morde la coda.

A questi vanno aggiunti gli investimenti privati e i prestiti che la Banca Europea degli Investimenti concederà all’intero ecosistema dei semiconduttori. Proprio la Bei insieme al fondo InvestEu darà vita a “Fondo per i chip” per dare nuova linfa e far espandere tutte quelle realtà che eccellono nel campo della tecnologia dei semiconduttori; ma anche per incentivare la nascita di start up innovative e la realizzazione di nuovi impianti di produzione, e quindi delle fonderie.

Tutto molto bello e importante, ma alcuni analisti non sono soddisfatti di questa iniziativa: la critica maggiormente avanzata è stata per la quantità di fondi istituiti, non sufficiente, secondo alcuni, a rendere davvero autonoma e competitiva l’Europa per quanto riguarda la produzione di Chip. Lo stesso obiettivo di aumentare la capacità produttiva europea del 20% entro il 2030 è visto da alcuni non solo troppo ambizioso ma anche utopistico: quello dei chip infatti è un settore complesso ad altissima intensità di capitali, e tendente a una fortissima concentrazione, con barriere all’entrata difficili da superare. Si producono tipicamente in pochissime grandi fonderie, che richiedono investimenti miliardari e anni di lavoro per essere realizzate. La stessa catena produttiva dei chip è molto lunga (spesso anni), dispendiosa a livello economico e soprattutto soggetta a repentine innovazioni tecnologiche a cui bisogna rimanere al passo per essere veramente competitivi. E proprio sotto quest’ultimo punto l’Europa, rispetto agli altri competitor (Stati Uniti e Cina), è molto carente. La strada da fare quindi è molto lunga e per percorrerla ci potrebbero volere decenni. Ma l’importante è che si sia partiti.

Il percorso intrapreso dall’Europa è quella giusto. Gli scenari geopolitici si evolvono in continuazione: la guerra tra Russia e Ucraina ha ulteriormente dimostrato che l’interdipendenza in qualsiasi settore (nel caso specifico energetico) sta diventando sempre più controproducente e che una soluzione va trovata. Le basi sono state date, ora bisogna proseguire su questa strada, aggiustando il tiro se c’è bisogno.

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